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La mietitura e la tradizione contadina tra duro lavoro e aria di festa

Le Marche sono una terra di forti tradizioni, legate – come lo siamo noi de La Pasta di Camerino – alla vita contadina e al lavoro nei campi. E nella tradizione la raccolta del grano era un’occasione di festa, oltre che di grande fatica, che coinvolgeva uomini, donne e bambini. Parte di questa festa era anche la tavola, che veniva imbandita con i frutti di un anno di lavoro – carni, formaggi e vino – per fare “bella figura” con i vicini e il proprietario del campo. Ora che il grano è maturo e abbiamo iniziato a raccoglierlo, proviamo a rivivere insieme quella tradizione.

Di solito a fine giugno, dopo la festa di San Giovanni, i campi si tingono di un giallo intenso: è il segnale che il grano è maturo e pronto per essere raccolto. Nella nostra tradizione contadina questo momento del calendario rurale era molto atteso e carico di aspettative, perché giungeva al termine di un duro lavoro, ed era per questo anche un grande momento di festa.

Ancora negli anni ’50 la raccolta del grano avveniva a mano ed era un lavoro che impegnava nei campi una quindicina di persone: vi partecipavano uomini, donne e bambini, ognuno con un ruolo ben definito, ed erano coinvolte le famiglie di tutto il vicinato. L’attività durava dall’alba al tramonto e la fatica, sotto il sole cocente di luglio, era tanta. Un primo gruppo procedeva per file ordinate a tagliare il grano a forza di braccia, con la falce ben affilata; a questo seguiva un altro gruppo, di solito formato da donne e bambini: il loro compito era raccogliere e legare le fascine con cui, infine, un ultimo gruppo avrebbe formato i covoni. I covoni venivano formati con cura meticolosa, aggregando mazzi di fascine ben ordinate e posizionate con le spighe verso l’esterno perché potessero prendere il sole e seccarsi, nel corso dei giorni successivi. Il compito delle ragazze, oltre a quello di dare una mano nel campo, era anche di portare ai lavoratori una buona merenda per rifocillarsi: ciambellone, acqua limonata e vino bianco, che venivano serviti all’ombra di una quercia o di un grande gelso.

Al termine di questa lunga attività i campi apparivano così ordinati da rivelare l’importanza, quasi sacrale, che veniva data alla raccolta del grano. Ma il lavoro non finiva qui.
Dopo una decina di giorni dalla raccolta veniva il momento della trebbiatura: i covoni venivano portati sull’aia e disposti a forma di barca, in modo tale che le fascine, una volta slegate, potessero essere inserite facilmente nella bocca della trebbiatrice. Questa lavorava le spighe dividendo i chicchi dalla paglia e dalla pula e raccogliendo i primi in grandi sacchi di iuta, mentre alcune donne ammucchiavano la paglia con lunghi forconi di legno.
Anche alla trebbiatura partecipavano numerose persone, che solo alla fine del duro lavoro si riunivano finalmente intorno alla tavola. Ed è qui che risiedono i ricordi più belli e vividi.

Il pranzo della trebbiatura era un pranzo sontuoso che richiedeva ore di lavoro delle donne addette alla cucina. Il mezzadro doveva fare bella figura sia con i vicini che avevano aiutato nel lavoro sia con il proprietario del terreno: per questo faceva portare a tavola carne, formaggi e buon vino della sua dispensa.Per la pasta – di solito tagliatelle tirate a mano nei giorni precedenti o tagliolini pilusi – veniva preparato un sugo d’oca o d’anatra e rigaglie di pollo, che veniva fatto bollire sul fuoco per ore: un sugo molto sostanzioso che serviva per rinfrancare i lavoratori dalle fatiche dei giorni precedenti. Nel menù non mancavano poi erbe di campo cotte, pomodori e cetrioli conditi con l’olio buono e l’oca arrosto, che era però riservata al proprietario del campo e ai macchinisti; infine dolci e caffè ammorbidito con un po’ di anice. Era un momento conviviale molto atteso e gradito, condito di storielle e aneddoti, che a volte vedeva nascere nuovi amori.

Alla fine del pranzo il lavoro riprendeva fino al tramonto: i macchinisti smontavano la trebbiatrice e partivano in fretta verso un’altra casa colonica, le donne e le ragazze rassettavano la cucina mentre gli uomini terminavano il lavoro sull’aia.
Quanti bei ricordi da rivivere in questi giorni, magari ascoltandoli dai nonni, per tramandare tradizioni della vita contadina che ancora oggi ci parlano di semplicità e condivisione: valori di cui proprio nelle scorse settimane abbiamo riscoperto l’importanza ma che fanno parte da sempre del nostro DNA.

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Sulle colline dell’entroterra marchigiano la brezza del mare adriatico si mescola all’aria pura e alla terra genuina dei monti sibillini. È qui che nasce La Pasta di Camerino, ruvida e porosa come quella fatta in casa, realizzata con cura e nel rispetto dei migliori metodi artigianali.

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